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Robbie Williams: “Non sono il cattivo che ha distrutto i Take That”

In passato ha lottato contro l’assenza del padre, ma ora le cose sono cambiate: “Oggi è un mio grande amico. Gli voglio molto bene”

Robbie Williams: “Non sono il cattivo che ha distrutto i Take That”

Credits: Instagram @robbiewilliams

03 Dicembre 2024

Redazione 105

Better Man uscirà il 1° gennaio e porta in scena la vita di Robbie Williams senza nascondere niente della sua carriera: l’ascesa, la caduta vertiginosa, la rinascita, ma anche la vita più privata fatta dell’amore per la nonna, di un vuoto incolmabile lasciato dal padre assente, la depressione e le dipendenze. Intervistato da Vanity Fair, il cantante si definisce un tipo impulsivo, in un gioco continuo tra luci e ombre tra successi e rischi enormi. La scommessa più grande però l’ha vinta ed è stata quella di sposare la moglie.

Il perché lo dice senza mezzi termini: “Non riuscivo a tenere il mio pene nei pantaloni, e lo sapevo. Sposarmi serviva più o meno ad abbracciare uno stile di vita monogamo. E sapevo anche che avrei potuto perdere metà di tutto ciò che avevo guadagnato. Ecco perché, in termini concreti, è stata quella la scommessa più grande. Ma l’altra è stata sognare. Da dove vengo io, queste cose non succedono a persone come me. E finché non le sogni, finché non ci provi… l’album ‘Swing When You’re Winning’, Rudebox, i video, le cose che dico nelle interviste, nei talk show: sono tutti azzardi. Ognuno di loro avrebbe potuto essere il disastro totale o un successo”.

Inevitabile parlare dei Take That se si parla di Robbie Williams. A lungo si è creduto che sia stato lui a lasciarli, ma in realtà è stato l’opposto: “Tutta la parte sui Take That potrebbe essere un film a sé. Non ci sono veri cattivi nella band. Eravamo solo ragazzi che cercavano di capire chi fossero, immersi in un ambiente tossico ed estremo. Qualcuno mi ha detto che in Italia si pensava che volessi diventare il cantante principale della band. Non è vero. Non credo ci fosse questa narrazione nel Regno Unito. Ho lasciato la band, e le ragazze erano tristi, tutto qui. Ma sì, mi ha colpito sapere che in Italia si pensava fossi io il cattivo. Però va bene così. Non mi disturba”.

Nemmeno per lui fu un periodo semplice, non solo per i suoi compagni. La fama che lo ha travolto gli ha presentato il rovescio della medaglia, depressione e dipendenze: “Credo che, all’epoca, in nessun settore ci fosse la giusta attenzione alla salute mentale, men che meno nell’intrattenimento. Oggi le cose sono cambiate. Chi era al comando negli anni ‘70, ‘80 o ‘90 non sapeva come affrontare certi problemi. Non possiamo biasimarli per ciò che non conoscevano. Non sapevano che le pressioni esterne possono farti crollare psicologicamente. Ora abbiamo più consapevolezza e possiamo agire di conseguenza”.

Eppure il problema non è superato: “Io ho 50 anni, e posso permettermi di dire: ‘Alt, così è troppo’. Per fortuna ho un management e un’etichetta discografica che mi ascoltano e si preoccupano del mio benessere, dicendo: ‘Ok, fermiamoci qui’. Non so cosa significhi far parte di una boy band nel 2024, ma immagino che oggi manager e case discografiche siano terrorizzati all’idea di sbagliare, temendo di finire sotto accusa”.

Si passa ai rapporti con il padre che oggi ha perdonato: “Sì, oggi mio padre è un mio grande amico. Gli voglio molto bene. Diventare papà mi ha fatto riflettere: ‘Oh cavolo, anche i miei genitori sono stati bambini’. E anche io, in fondo, sono ancora un bambino. Questo mi ha dato una nuova prospettiva sulla famiglia e sulla genitorialità. Essere nato con una sensibilità estrema e un bisogno insaziabile di tenerezza, gentilezza e attenzione non significa che la responsabilità sia sua: è qualcosa che devo affrontare io”.

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