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Coronavirus, 45mila dipendenti di aziende del Nord stanno lavorando in smart working al Sud

La pandemia ha provocato un esodo al contrario.

Coronavirus, 45mila dipendenti di aziende del Nord stanno lavorando in smart working al Sud

16 Novembre 2020

Se negli ultimi decenni abbiamo assistito a un progressivo spopolamento del Sud Italia con migliaia di persone che si sono trasferite al Nord per studiare e lavorare, adesso, a causa della pandemia, si sta verificando il fenomeno inverso. Si tratta di un vero e proprio esodo al contrario, dovuto in gran parte allo smart working che consente a tanta gente di tornare nel proprio territorio d’origine, pur continuando a lavorare per aziende situate al Nord, a distanza per l’appunto.

I dati ricavati da un’indagine della Svimez, condotta da Datamining, rivelano che al momento sono circa 45mila le persone del Nord che sono tornate al Sud per lavorare in smart working dall’inizio della pandemia a oggi. La ricerca è stata condotta su 150 grandi imprese, con oltre 250 addetti che operano in diverse aree del Centro-Nord e in vari settori, come quello manifatturiero e dei servizi.

Il Rapporto Svimez 2020, che verrà presentato martedì 24 novembre, rivela in realtà che questa potrebbe solo essere la punta di un iceberg, perché bisogna tenere conto che esistono anche tantissime medie e piccole imprese e che, dunque, i lavoratori che si sono trasferiti al Sud per lavorare da remoto potrebbero essere molti di più, circa 100mila si pensa.

Al momento sono circa due milioni i lavoratori occupati originari del Sud che lavorano al Centro-Nord: secondo lo studio, circa il 3% dei dipendenti è ricorso a quello che è stato ormai ribattezzato “southworking”; la percentuale si riferisce ovviamente ai dipendenti delle aziende che hanno utilizzato la modalità smart working sin dall’inizio della pandemia.

Sotto altri punti di vista, questa situazione potrebbe essere un’opportunità per il Sud: “Poter offrire ai lavoratori meridionali occupati al Centro-Nord la possibilità di lavorare dai rispettivi territori di origine – commenta Svimez - potrebbe costituire un inedito e quanto mai opportuno strumento per la riattivazione di quei processi di accumulazione di capitale umano da troppi anni bloccati per il Mezzogiorno e per le aree periferiche del Paese. Occorre concentrare gli interventi - prosegue - sull'obiettivo di riportare al Sud giovani laureati (25-34enni) meridionali occupati al Centro-Nord. La platea di giovani potenzialmente interessati potrebbe ammontare a circa 60.000 giovani laureati”.

La parte del Rapporto Svimez dedicato a questo tema è stata realizzata in collaborazione con l’associazione South Working – Lavorare dal Sud, fondata dalla giovane palermitana e south-worker Elena Militello. Secondo i dati di questa associazione, l’85,3% degli intervistati ha dichiarato che tornerebbe a vivere nel proprio luogo d’origine se fosse consentito lavorare da remoto anche dopo la fine della pandemia. Secondo il rapporto, inoltre, per le aziende questa situazione comporterebbe numerosi vantaggi, come la flessibilità degli orari e la riduzione dei costi fissi delle sedi fisiche; d’altro canto, però, ci sarebbero alcuni problemi, come il mancato controllo dei dipendenti e la sicurezza informatica. Per i lavoratori, invece, i vantaggi consistono per lo più nel minor costo della vita in generale, oltre che la possibilità di tornare a vivere accanto ai propri cari.

Questa situazione, insomma, è in continua evoluzione ma al momento è difficile fare ipotesi su cosa avverrà una volta che l’emergenza sanitaria sarà terminata; di certo, però, il south working apre prospettive che prima era molto difficile anche solo immaginare.

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