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Credits: Instagram/risateallitaliana
22 Dicembre 2020
“Lo chiamavano Trinità...” compie mezzo secolo. Il 22 dicembre del 1970 usciva nelle sale italiane lo spaghetti western diretto da E.B. Clucher (pseudonimo di Enzo Barboni) che consacrò alla storia il duo composto da Bud Spencer e Terence Hill. Già insieme sui set di “Dio perdona… io no!” del 1967 e “I quattro dell’Ave Maria” del 1968, entrambi diretti da Giuseppe Colizzi, i due devono proprio a questa pellicola l’enorme successo che hanno riscosso e continuano a riscuotere ancora oggi e che li ha resi una delle coppie più amate del grande schermo.
E dire che per i ruoli di Trinità (Terence Hill) e Bambino (Bud Spencer) erano stati inizialmente contattati George Eastman e Peter Martell. Una volta appreso che il regista stava girando per i vari produttori proponendo il copione, furono proprio Girotti e Pedersoli a proporsi in coppia. La parte andò a loro, che diedero vita a una delle più classiche e meglio riuscite parodie dei western, con scene di scazzottate e siparietti comici a confondersi nelle ambientazioni tipiche del genere.
In alcune grandi città, come Roma e Torino, la pellicola venne proiettata soltanto nei primi mesi del 1971. A marzo di quell’anno vide la luce in Germania, a ottobre a Los Angeles, mentre nel 1972 fu la volta di Australia e New York. Consacratosi vicecampione d’incassi nella stagione cinematografica italiana, con oltre 3 miliardi e 100 milioni incassati al botteghino, il film è stato campione d’ascolti nei suoi innumerevoli passaggi televisivi. Nel 1988 arrivò addirittura a registrare un ascolto di oltre 11 milioni di telespettatori dall’Auditel.
Il sequel “…continuavano a chiamarlo Trinità” fu realizzato già nel 1971, continuando così l’epopea dei “fagioli western” e contribuendo ad accrescere ulteriormente la fama della coppia. La pellicola è diventata un cult anche per registi hollywoodiani come Quentin Tarantino, che nel suo “Django Unchained” del 2012 utilizzò per la canzone della scena finale il tema di Franco Micalizzi cantato da Lally Stott.