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Edoardo Leo sui femminicidi: “Siamo tutti parte del problema”

Redazione 105

La sua carriera nel cinema è iniziata perché “desideravo pagarmi l’università. Il mio migliore amico Marco Bonini aveva fatto una pubblicità degli orologi e gli avevano dato un sacco di soldi. Ho pensato: perché no”

Edoardo Leo sta per approdare al cinema con Non sono quello che sono, una rilettura dell’Otello di Shakespeare che tocca un tema tristemente noto: la gelosia. E di qui, nel corso di un’intervista con Vanity Fair, parte una riflessione sul maschilismo inconsapevole e sui comportamenti patriarcali che lui stesso ammette di non aver saputo tenere a bada, a volte. 

Ma perché proprio Shakespeare? Perché l’argomento, strettamente collegato ai femminicidi, è strettamente e tremendamente attuale. “La miccia è stata un titolo di giornale: ‘Uomo uccide la moglie e poi si suicida’. Ho pensato: è la storia di Otello”. Un’idea che gli è venuta nel 2006-2007 e che voleva diventasse il suo esordio alla regia ma “allora non me l’avrebbe prodotto nessuno: io non ero nessuno, il cinema puntava sulle commedie e i femminicidi non occupavano le prime pagine dei quotidiani. Ho cominciato comunque a scrivere la sceneggiatura nei ritagli di tempo. Ho letto parecchie traduzioni e visto tutti i film possibili sull’Otello, musical indiani compresi”.

Una produzione che lo ha cambiato notevolmente, facendogli capire che anche lui non era così dissimile da tanti altri. “Ho realizzato di non essermi mai indignato guardando il pugilato, sport nobilissimo dove a un certo punto però una ragazza in costume sui tacchi sfila con il cartellone del round e gli spettatori la insultano per divertimento. Quando è uscito il film ‘Mia’ (sulle relazioni tossiche tra i giovani), ho intimato a mia figlia di 14 anni: ‘Non permettere a nessuno di dirti come truccarti, come vestirti, a che ora uscire. Nemmeno a me’, e mi sono pure sentito figo. Non mi ha sfiorato invece il pensiero di chiedere a mio figlio, oggi 18enne, se è mai stato ossessivo, morboso, possessivo. L’altro giorno, davanti a una partita di calcio in tv, mi sono rivolto a un giocatore con un’espressione infelice: ‘Ma fai il maschio!’. Siamo tutti parte del problema”.

E che soluzioni propone? “Fermarci: per riflettere su quello che diciamo e facciamo, per metterci in discussione. E, per quanto mi riguarda, spingere di più sul potere dell’arte. Ci sono femminicidi che scuotono l’opinione pubblica più di altri. Quando è stata uccisa Giulia Cecchettin ero in tournée a teatro e tutti parlavano della sua storia. Ho deciso di cambiare metà dello spettacolo: ho cominciato a leggere alcuni passaggi del monologo di Franca Rame Lo stupro e le domande agghiaccianti che nelle aule di tribunale vengono rivolte alle donne vittime di violenza sessuale. Prendendo poi le parole di Elena Cecchettin – ‘Non fate un minuto di silenzio per mia sorella, fate un minuto di rumore’ –, ho chiesto agli uomini presenti in sala di alzarsi in piedi e alle donne di fare un baccano infernale”.

Un gesto potente che ha avuto effetti inaspettati: “Dal palco io guardavo quegli uomini: qualcuno è rimasto seduto, molti avevano il terrore dipinto in faccia, altrettanti mi hanno detto che non avevano mai provato un tale imbarazzo. Sa che cosa rispondevo? ‘È lo stesso che avverte una ragazza quando al ristorante, vestita come pare a lei, va verso il bagno e passa davanti a un tavolo di quattro maschi: nel migliore dei casi la fissano come carne da macello, spesso le rivolgono commenti terribili. Ecco, nella vita privata, posso fare che, se sto a quel tavolo, me ne vado; nella vita professionale, invece, devo creare occasioni di riflessione”.

Parlando della sua carriera, gli è stato chiesto come è arrivato al cinema: “Desideravo pagarmi l’università. Il mio migliore amico Marco Bonini aveva fatto una pubblicità degli orologi e gli avevano dato un sacco di soldi. Ho pensato: perché no. La differenza tra noi: lui era convinto di tentare la strada della recitazione, io per niente”. Da lì è iniziato tutto: l’hanno preso direttamente in una serie: “Poche battute e tanti giorni di set. Seconda scintilla della vita”.

Ciò non significa che non ci siano stati momenti no: “Avevo 27 anni e sono stato cacciato da una serie importante. Avevo iniziato a girare da tre settimane. D’improvviso non mi hanno più convocato. Non ero all’altezza, hanno comunicato al mio agente. Non volevano nemmeno pagarmi e se avessi fatto causa non avrei lavorato più. Causa l’ho fatta lo stesso, ma si è risolto tutto prima con una transazione”. Un colpo durissimo: “Ho pensato di smettere, che non valeva la pena stare così male. Alla fine non ho ceduto: la perseveranza è di famiglia. Ho cambiato prospettiva: se certi ruoli non arrivavano, dovevo scrivermeli da solo. Così è nato ‘Diciotto anni dopo’, il primo film che ho diretto”.

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