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16 Luglio 2025
Redazione 105
La linea che separa la vita dalla morte è sempre stata netta, invalicabile. O almeno lo è stata fino a oggi. Oggi, infatti, l’intelligenza artificiale sta cominciando a scalfire anche questo confine.
A far discutere in tutto il mondo è stato un video diventato virale: mostra un uomo coreano, morto da tempo, che “torna” sotto forma di ologramma grazie a un sofisticato sistema di IA. Di fronte a lui, la figlia e la moglie, commosse che interagiscono con questa presenza digitale. Dietro a questa scena c’è DeepBrain AI, una startup sudcoreana che, con il progetto Re;memory, promette di “riportare in vita” chi non c’è più, almeno in forma virtuale.
DeepBrain non è un caso isolato. Altre startup stanno lavorando per rendere questi incontri digitali una pratica diffusa: vere e proprie “conversazioni post-mortem” per aiutare le persone ad affrontare la perdita. Ma questa possibilità di dialogare con un defunto è davvero un sollievo o rischia di diventare una nuova trappola emotiva?
Secondo uno studio dell’Università di Cambridge, riportato dal New York Times, questa nascente industria solleva interrogativi profondi. Uno dei rischi più evidenti è la monetizzazione del dolore: abbonamenti per “mantenere in vita” un avatar virtuale, pubblicità mirate diffuse da chatbot che imitano la voce di chi non c’è più, messaggi indesiderati da una presenza digitale che continua a farsi viva anche quando non è più desiderata.
Eppure, non ci sono solo aspetti negativi. Per alcuni, l’intelligenza artificiale può diventare un archivio di ricordi: una voce, un racconto, una storia di famiglia tramandata a chi verrà dopo. Sul piano terapeutico, i chatbot possono aiutare a elaborare il lutto, come un diario con cui parlare dei propri sentimenti.
Dunque, se da un lato questi strumenti possono essere un ponte con chi non c’è più, dall’altro potrebbero trasformarsi in una gabbia che impedisce di accettare davvero l’assenza. Però, come ricorda il New York Times: “Persino il dolore viene trasformato in un’esperienza da gestire, contenere, superare. Il problema, dunque, non è tanto la tecnologia in sé, ma l’uso che ne facciamo”.
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