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Per l'Eurostat anche chi lavora rischia la povertà: gli uomini più delle donne

I dati mostrano che 1 lavoratore su 8 rischia la povertà, ovvero 2,7 milioni di persone

Per l'Eurostat anche chi lavora rischia la povertà: gli uomini più delle donne

19 Marzo 2018

In Italia anche chi lavora è a rischio povertà.
A lanciare l’allarme sono i dati Eurostat riferiti al 2016 secondo cui 1 lavoratore su 8 è a rischio povertà, ovvero l’11,7% dei lavoratori, che si traducono in 2,7 milioni di persone.
Neanche chi ha un impiego è al sicuro e la povertà è sempre dietro l’angolo.
Il fenomeno dei “working poor”, ovvero coloro che pur lavorando rischiano la povertà, investe principalmente i lavoratori part time e i precari.
Ma non solo, perché ci sono anche persone con contratti a tempo indeterminato che versano in situazioni di indigenza.
 
Il “working poor” è un fenomeno molto diffuso in Italia. I paesi dell’Unione Europea che stanno peggio sono solo Romania, Grecia, Spagna e Lussemburgo.
La percentuale dei lavoratori a rischio povertà è in crescita rispetto al 2015 e soprattutto rispetto al 2010. Determinante è il tipo di contratto: in Italia i lavoratori part time che rischiano la povertà sono il 19,9% (uno su cinque), mentre quelli con un contratto a tempo indeterminato sono il 7,5% (in aumento rispetto al 2010).
Eurostat sottolinea inoltre che gli uomini rischiano la povertà molto più delle donne: 10% contro il 9,1%.
 
Anche la Cgil ha osservato che tra chi ha un lavoro a tempo determinato e chi ne ha uno part time involontario rischiano la povertà 4,5 milioni di lavoratori.
Non solo. La Cgil mostra che, rispetto al 2008 (pre crisi) sono diminuite le ore di lavoro (abbassate del 5,8%) e le Ula, ovvero le unità di lavoro a tempo pieno (- 4,7%).
Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio (FDV), ha dichiarato:
«Il numero totale degli occupati, pur importante, rappresenta un'immagine molto parziale della condizione del lavoro in Italia, dove la qualità dell'occupazione è in progressivo e consistente peggioramento. È evidente dai dati, che la ripresa non è in grado di generare occupazione quantitativamente e qualitativamente adeguata, con una maggioranza di imprese che scommette prevalentemente su un futuro a breve e su competizione di costo».

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