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16 Aprile 2018
"I miei locali non sono mai stati dei ristoranti perché io non sono uno chef, sono uno che cucina". È questa la frase che descrive meglio Filippo La Mantia, siciliano con un passato da fotografo nella sua Palermo insanguinata negli anni Ottanta dagli omicidi di mafia. La storia dietro al passaggio dalla macchina fotografica ai fornelli è molto particolare. L'ha raccontata lui stesso a 105 Mi Casa, il salotto on-air di Max Brigante.
A 26 anni, era il 1986, La Mantia finisce in carcere dopo essere stato coinvolto nell'indagine legata all'assassinio del vice-questore aggiunto Ninni Cassarà. Gli inquirenti sospettavano che i proiettili fossero partiti da un appartamento di cui lui risultava essere l’ultimo affittuario registrato.
È proprio in carcere che si avvicina alla cucina e prepara piatti per sé e per altri 11 detenuti. "Cucinavo anche prima, solamente che il cibo in un ambiente di quel tipo rappresenta uno stile di vita", ha spiegato a Max Brigante, raccontando che i suoi genitori gli inviavano ogni settimana un pacco di cibo di 5 chili: "Era orgoglio metterlo sulla tavola e farlo mangiare ai compagni d'avventura. La tavola era l'unica cosa che curavamo tutto il giorno".
Dopo 6 mesi di detenzione arriva l'ordine di scarcerazione firmato da Giovanni Falcone. Da lì La Mantia, dopo essersi riappropriato della sua vita, inizia a coltivare il sogno di diventare un cuoco partendo da un piccolo locale di San Vito Lo Capo per poi sbarcare a Milano con un ristorante che oggi è uno dei più apprezzati della città.
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